Participationist Manifesto

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MANIFESTO DEL PARTITO PARTECIPAZIONISTA

di Alessandro Mengozzi

La modernità dimezzata

La modernità è quel processo culturale, economico e politico, che ha caratterizzato la società occidentale poi l’intero mondo, in particolare dalla metà del cinquecento ad oggi. Si tratta di un progressivo affrancarsi dell’individuo dai vincoli tradizionali (religione, famiglia, poteri aristocratici) a scapito di sistemi sempre più differenziati e specializzati di controllo sociale spersonalizzati (scienza, denaro, burocrazia).
Questo mutamento lento e altalenante, ma costante, negli anni del XVIII e XIX secolo ha visto rapidi incrementi, in particolare con la Rivoluzione Americana e Francese sono state soppiantate le forme di governo monarchiche con l’affermazione del cittadino quale sovrano, alla pari degli altri, dello stato.
Solo con il XX secolo si affermano in alcuni stati questi principi in maniera più radicale e radicata, ad esempio con l’introduzione del suffragio universale, la possibilità per tutti, indipendentemente dal patrimonio, dal reddito, dalla religione, dall’alfabetizzazione, di poter votare i propri rappresentanti nelle istituzioni parlamentari. In alcuni stati si affermano anche i referendum e altre forme di partecipazione diretta dei cittadini ad alcune scelte politiche.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, le democrazie rappresentative parlamentari, cioè le forme democratiche così come le conosciamo oggi nei paesi occidentali, si diffondono in tutto il mondo e continuano ad affermarsi.
Nei primi vent’anni del Novecento, in tutti i paesi occidentali, parte un forte movimento popolare di riscatto sociale, emancipazione dai vincoli economici e di affermazione politica delle classi lavoratrici che vivevano in condizioni insopportabili. Ma è solo con gli anni sessanta che riprende, partendo dagli Stati Uniti, con il movimento studentesco, una forte ondata di protesta e richieste per una maggiore democrazia, non solo limitata al momento elettorale, alla scelta dei candidati che dovranno rappresentarci e governare.
Questa ondata di modernizzazione della politica reclamava l’allungamento – oltre alla scelta dei parlamentari e dei premier – delle volontà dei cittadini nelle fasi di costruzione delle scelte politiche:
– strategiche/costitutive (p.e. Assetti istituzionali,  configurazioni territoriali centraliste o federaliste, accordi di alleanza, guerra e pace con altri stati, etc.),
– etiche-culturali (p.e. Leggi riguardanti la famiglia e la procreazione, i rapporti tra i sessi, tra le etnie, la libertà d’espressione culturale e la censura, etc.),
– economiche (p.e. Imposizione fiscale, investimenti in infrastrutture pubbliche e servizi sociali, formazione e educazione, etc.)
L’estensione della partecipazione avrebbe comportato una maggiore responsabilità per i cittadini chiamati a discutere e selezionare le scelte politiche. Ciò avrebbe indotto, da parte loro, uno sforzo per informarsi, confrontarsi con gli altri ed elaborare idee e strategie di mediazione e compromesso. Tutto ciò avrebbe fatto crescere di volta in volta, mantenendo la partecipazione dalle fasi preliminari alla decisione al monitoraggio dell’impatto reale della stessa, una cittadinanza più attenta e vigile, capace di apprendere dagli errori, dovuti alle proprie scelte, dunque in grado di far evolvere ogni cittadino nelle proprie relazioni e dunque la società intera.
Dalla metà degli anni Settanta però questo processo ha subito una contrazione, un blocco, sia ideologico che politico, con il riaffermarsi di forme e atteggiamenti autoritari, solo per metà democratici. Questo ha coinciso con un periodo quarantennale, caratterizzato da qualche impennata economica che si è rivelata di fatto virtuale ed evanescente ed una sostanziale e profonda regressione industriale ed economica, accompagnata tuttavia da un lieve miglioramento delle condizioni ecologiche locali nei paesi e territori più avanzati, ma con dubbie ricadute globali (p.e. riscaldamento climatico; rifiuti e sostanze tossiche disperse nell’ambiente) e pesanti ricadute nei territori marginali e arretrati (p.e. Incremento della popolazione urbana degli slum; fame; guerre diffuse con impatti ambientali subdoli e  persistenti; discariche di rifiuti tossici e radioattivi, etc.).
Non tutti i paesi tuttavia hanno optato per questo blocco anti-democratico, smantellando le regole e alcune sicurezze sociali. Sebbene un ritorno a principi liberalisti di stampo ottocentesco si siano diffusi in tutti i paesi europei, con episodi gravi un po’ ovunque (crisi islandese, rigurgiti nazionalsocialisti in Norvegia, Germania, populisti in Francia e localisti in Italia) non tutti i paesi hanno reagito passivamente: la Svizzera, la Germania, l’Austria, i Paesi Bassi, i paesi scandinavi, hanno mantenuto i livelli più alti del mondo di sviluppo e benessere, sicurezza sociale e qualità ambientale; in parte perché hanno saputo mantenere e migliorare i propri assetti partecipativi, riconoscendo il ruolo territoriale dei partiti, dei sindacati, dell’associazionismo, e garantire una buona partecipazione nelle scelte pubbliche. Con questo non si intende dire che bisogna imitare quei paesi, ma riprendere quel percorso interrotto, prendendo atto delle condizioni storiche e sociali del contesto in cui si opera. Anche in quei paesi, più avanzati, è necessario progredire con un’incessante democratizzazione.

Principio finalistico della filosofia partecipazionista

Affidando responsabilità all’individuo nelle scelte collettive, egli/ella si informa autonomamente, si confronta con chi la pensa diversamente da lui, sente propria la scelta operata nel contesto di un processo democratico e comunque si attiva per verificarla, valutarla e controllarne gli effetti. In questo processo l‘individuo apprende continuamente, soprattutto dagli errori, si forma con fiducia e cresce un’intelligenza collettiva, le decisioni si perfezionano e la civiltà evolve, migliorando il proprio livello di conoscenza, benessere e coesione.

Obiettivo politico della filosofia partecipazionista

La filosofia partecipazionista sostiene dunque la progressiva inclusione della volontà dei cittadini nelle scelte pubbliche, a tutti i livelli di governo territoriale, in tutti gli assetti istituzionali e tecnici dello Stato, attraverso l’introduzione della cultura, degli strumenti e delle più rigorose pratiche della democrazia partecipativa.

Un partito moderno

I partiti politici, dapprima fazioni facenti capo a gruppi parlamentari, si sono affermati nel Novecento coinvolgendo e organizzando grandi masse di persone. Ancora oggi svolgono una funzione essenziale nella selezione delle élite politiche, ossia dei pochi che governano, attraverso le competizioni elettorali. Tuttavia non assomigliano più ai grandi partiti di massa del Novecento, che infondevano un’identità ai loro membri, sviluppavano un linguaggio e stili di vita propri e riuscivano a mobilitare grandi masse di persone sulle stesse istanze. I partiti, se considerati semplicemente come gruppi di persone che propongono e organizzano ‘liste elettorali’, sono sempre esistiti da quando esistono libere elezioni e sono forme spontanee e ovvie di auto-organizzazione civile.
I partiti, per conquistare i voti degli elettori, propongono un progetto politico ossia ideologie, grandi o piccole, fatte di simboli e messaggi.
I partiti devono proteggere il messaggio che hanno proposto agli elettori dalle sempre possibili deviazioni, divagazioni, che possono corrompere, distrarre, i loro candidati una volta eletti. Ciò in una democrazia liberale è ammissibile; non si può obbligare un individuo a pensare sempre nello stesso modo ed è proprio un principio democratico che chi detiene la responsabilità della decisione pubblica in una qualsiasi arena deliberativa, come i parlamentari, debba e possa, secondo propria coscienza, facendo maturare (o mutare) la propria posizione nel dibattito e nella dialettica parlamentare, adattare l’orientamento al caso ed assumere la decisione che ritiene più opportuna, senza sottomettersi ad alcun condizionamento esterno. La responsabilità politica è in capo all’eletto (parlamentare o consigliere o sindaco…) non al massimo dirigente del suo partito. Sta al partito, alle sue strutture, soprattutto formative, alle sue modalità organizzative, reclutare i candidati più affidabili, leali e capaci di spiegare le scelte che possano essere, talvolta anche se contrarie alle ideologie proposte dal partito, convincenti per la propria parte. Nello stesso tempo è tuttavia legittimo che il partito non riconosca le scelte e le motivazioni dell’eletto e decida di estrometterlo pubblicamente, impedendogli legalmente di continuare ad utilizzare nome e simbolo del partito a cui appartiene.
E’ un delicato equilibrio. Più il partito riesce a far crescere iscritti, elettori, e a mantenere eletti nelle proprie fila, più è forte e radicato nella società; tutto ciò indipendentemente dalla sorte dei suoi capi (leader), ma grazie alla solidità delle sue idee e della sua organizzazione. Che si chiamino esplicitamente partiti, movimenti, o altro, i gruppi che competono sul campo elettorale, sono organizzazioni ‘private’, cioè emergono spontaneamente, nei contesti democratici, dalla società. Hanno un proprio codice ideologico, un nome, un simbolo e alcune regole organizzative.

Un partito partecipazionista dovrà avere un nome che metta in luce la filosofia partecipativa, un simbolo coerente, una strategia programmatica, un assetto organizzativo e regole chiare di inclusione/esclusione dei propri membri collegate ad un programma di formazione-confronto continui.

La strategia programmatica partecipazionista

Il codice ideologico, che contraddistingue quella partecipazionista da altre ideologie, è porre come principio fondatore l’assunto binario che si possa optare per intraprendere due strade radicalmente opposte. Quella dell’incremento democratico, della democratizzazione della società, includendo le volontà dei cittadini nella scelte politiche oppure quella della stasi o del decremento democratico, delegando cariche autocratiche, capi, leader, presidenti, a decidere per tutti in modo rapido. Tale seconda strada è spesso accompagnata dall’argomento di supporto che le decisioni prese devono essere fatte rispettare anche con durezza e forza (polizia, esercito) in nome dell’interesse generale, a scapito degli egoismi particolari che si ribellano. La prima strada invece è sostenuta dall’argomento che le scelte, essendo il risultato di un processo di confronto e mediazione, basato sulla condivisione di un metodo, non produce ribellioni, anzi produce coesione, scelte sostenute dai più e verificate dalle minoranze che non le hanno condivise. La scelta autoritaria sostiene che i suoi tempi sono più brevi perché non richiedono dibattiti, confronti ed estenuanti trattative. La scelta partecipativa sostiene che la sua strada è solo apparentemente più lunga perché produce scelte condivise che non si bloccano e non riservano brutte sorprese.

Come primo punto del suo programma un partito partecipazionista pone l’attivazione di processi partecipativi per discutere, negoziare con gli attori della società (imprese, associazioni, sindacati, comitati, partiti), argomentare e selezionare con i cittadini (in maniera estesa come nei referendum o limitata con gruppi selezionati a campione in vario modo), le scelte collettive.

Primo Punto del programma: le politiche della partecipazione

Le politiche della partecipazione sono pratiche di partecipazione, i cosiddetti processi partecipativi. Si tratta di percorsi di discussione organizzata in cui gli attori del territorio interessati alla questione in esame, e i cittadini/individui, tutti o solo alcuni gruppi/campioni selezionati, sono coinvolti per giungere ad una decisione chiara su una determinata questione.
La questione in esame, oggetto del processo, può scaturire dai politici eletti, di maggioranza o minoranza, dalle organizzazioni del territorio, da gruppi spontanei di cittadini. Il gruppo di maggioranza seleziona un responsabile del processo, con esperienza in tali pratiche (può essere un funzionario dell’amministrazione pubblica o un consulente esterno) che organizza il percorso di discussione. Nella prima fase il percorso deve essere condiviso con tutte le organizzazioni del territorio interessate alla questione. Dopodiché prende avvio. Si discute e si trovano le modalità per risolvere i nodi conflittuali, le divergenze, per selezionare una delle varie possibili opzioni attraverso le quali si può studiare e affrontare un problema, una questione, qualunque essa sia (assetti istituzionali; questioni economiche, sociali, ambientali; questioni sanitarie, culturali, eccetera).

Chi si candida sotto l’egida partecipazionista, pone come punto non negoziabile, pena la propria estromissione dal partito, l’attivazione di processi partecipativi per affrontare tutte le questioni che vengono sottoposte agli organi di governo del territorio.
Loro traguardo è l’istituzionalizzazione dei processi partecipativi e la loro attivazione tutte le volte che la richiesta provenga da:
La maggioranza degli eletti del proprio gruppo assembleare (consigli di quartiere/circoscrizione, comunali, provinciali, regionali o parlamentari).
da un altro gruppo o coalizione assembleare che abbia una percentuale minima di voti.
Da apposite commissioni o consulte della società civile, quando attivate
Da petizioni che presentano un numero minimo di sottoscrittori, variabile in base al contesto territoriale, e che possono essere promosse da chiunque, individui, partiti, imprese, associazioni o comitati.

E’ facoltà dei candidati sotto l’egida partecipazionista condurre strategie di alleanza o opposizione con altre forze politiche, subordinando sempre le posizioni sul merito ai fini e ai metodi partecipazionisti. L’obiettivo dei loro negoziati di alleanza o della loro campagna di opposizione è l’affermazione delle politiche della partecipazione, ossia il primo punto del programma, il traguardo partecipazionista, che è fissato da statuto e parte integrante dell’identità del partito.

Secondo punto del programma: le politiche per la partecipazione

Per migliorare la qualità e facilitare la partecipazione, servono politiche di supporto orientate ad assicurare spazi adeguati, accessibili per tutti, luoghi confortevoli, tempi e servizi consoni, una formazione minima che permetta a tutti di utilizzare gli strumenti per informarsi e formarsi autonomamente un’opinione in maniera responsabile.
Sarà facoltà dei candidati/eletti, in base al proprio contesto territoriale, verificare e valutare lo stato degli spazi e dei tempi sociali, della partecipazione. Essi potranno introdurre nel proprio programma la necessità di realizzare luoghi adeguati per ospitare gli incontri attraverso i quali si svolgono i processi partecipativi, una maggiore diffusione di connessioni internet veloci, una formazione di base informatica, biblioteche, siti web della pubblica amministrazione più trasparenti e accessibili. A certi livelli di successo possono essere anche studiate ed elaborate, attraverso processi partecipativi, politiche per la partecipazione più complesse, che incentivino orari di lavoro ridotti (p.e. Part-time), che offrano compensazioni, rimborsi e servizi a chi si impegna nei processi partecipativi, dedicando loro il proprio tempo.

Le politiche per la partecipazione sono elaborate e proposte dai candidati sotto l’egida partecipazionista, nel loro contesto territoriale. Sulle quali il gruppo dei candidati/eletti dovrà raggiungere posizioni e priorità condivise e come tali dovranno essere comunicate pubblicamente.

Terzo punto del programma: le politiche territoriali

Possono esserci varie idee e strategie per affrontare le questioni che riguardano lo sviluppo economico, culturale e sociale di un territorio. I candidati e gli eletti potranno liberamente esprimere le proprie idee purché subordinino sempre, e chiariscano sempre nelle premesse, che le loro idee e proposte sono personali e saranno sempre subordinate al confronto ed alla selezione in un percorso partecipativo, alla pari delle altre. Ciò per favorire una creatività libera e non oppressa da schemi, per accettare vari modi di intendere la società e metterli a confronto. Più diversità significa più ricchezza, se tale diversità è disponibile ad unirsi nel confronto democratico.

E’ facoltà dei candidati/eletti avere proprie posizioni e idee sullo sviluppo, i problemi dell’etica, le questioni ambientali, gli affari diplomatici e giuridici, gli assetti e i finanziamenti istituzionali (p.e. entità dei compensi agli eletti). Possono comunicarle in ogni momento con i mezzi che preferiscono. Tuttavia devono impegnarsi, in tali comunicazioni, a premettere i loro principi democratici e a subordinare sempre le proprie posizioni al confronto alla pari in un processo partecipativo.

La strategia comunicativa partecipazionista

Il messaggio partecipazionista non è immediato e non arriva subito a toccare le emozioni più profonde delle persone. Fare comunicazione politica rispettando i suoi 3 principi può apparire impossibile se si rimane dentro gli schemi della politica tradizionale veicolata dai media tradizionali così come dei nuovi media (social media compresi) che incorporano ancora schemi non-partecipativi, monodirezionali o caotici. E’ necessario applicare gli stessi principi alla comunicazione e coinvolgere attivamente coloro che fino ad oggi sono stati pensati come destinatari passivi, come i target del messaggio, in co-creatori attivi del messaggio politico e della programmazione di contenuto del partito partecipazionista.

La comunicazione politica partecipazionista è partecipativa, ossia i partiti partecipazionisti utilizzano – al fine di guadagnare adesioni e voti – gli stessi metodi e strumenti che intendono utilizzare per elaborare le politiche.

I processi partecipativi possono essere organizzati in forma ridotta e facilitata, possono essere condotti su un unico tema significativo per il territorio in questione, con lo scopo di far capire chi sono e come intendono prendere le decisioni e dunque quali sono le finalità e gli obiettivi politici partecipazionisti.

La partecipazione politica in effetti inizia già in fase elettorale e i candidati sono già dei potenziali eletti, quindi simbolicamente assumono un po’ più di autorità rispetto ad un altro tipo di organizzazione o di cittadino. Non hanno le stesse risorse economiche e organizzative di un ente locale ma con il volontariato e una solida organizzazione di attivisti (formati) possono organizzare:
dibattiti facilitati che arrivano ad una conclusione, mediazione, soluzione – anche solo temporanea – dei nodi conflittuali, in cui sono invitati cittadini-elettori; dandone visibilità attraverso i media tradizionali e i social media.
processi partecipativi semplificati su questioni territoriali attuali e strategiche;  in cui si coinvolgono i principali attori interessati alla questione e poi gruppi di varie categorie sociali di cittadini/elettori – dandone visibilità attraverso i media tradizionali e i social media;
Inoltre possono:
utilizzare i social media per svolgere fasi di processi partecipativi, facilitati via internet;
utilizzare i social media per organizzare percorsi di formazione e confronto per i propri attivisti;
utilizzare i social media per ricreare legami sociali localizzati, di vicinato (residenziale e lavorativo), tra candidati e potenziali elettori: per far emergere questioni localizzate e organizzare micro-processi partecipativi e micro-comunità di mutuo-aiuto e azione.

Assetto organizzativo e regole del partito partecipazionista

Il partito è un organizzazione ‘privata’ che nasce spontaneamente nella società civile da una parte, da un gruppo di persone che ha obiettivi di cambiamento o mantenimento della situazione politica. Tale gruppo propone un’idea che possa riscontrare sostegno e consenso, sotto un nome, un simbolo, una strategia programmatica.
Per raggiungere il suo scopo di guadagnare consenso e quindi voti e cariche politiche pubbliche, si dà un’organizzazione e delle regole per proteggere il proprio nome, i propri obiettivi e strategie, da deviazioni, interpretazioni personali, corruzioni, fino ad estromettere i membri che non le rispettano.

L’organizzazione di un partito partecipazionista prevede:
> un consiglio direttivo formato inizialmente dai membri fondatori
> un comitato scientifico formato da esperti studiosi di democrazia partecipativa, comunicazione politica, scienze sociali
> un’assemblea degli iscritti

L’organigramma prevede le seguenti categorie di iscritti:
> i fondatori
> i militanti
> i candidati politici / eletti
> i sostenitori

I fondatori sono coloro che danno vita ai partiti partecipazionisti. Registrano nome e simbolo, e ne redigono statuto e regole. Attuano il suo impianto organizzativo e ne promuovono la diffusione. Possono far parte del consiglio direttivo o del comitato scientifico. Non possono ricoprire entrambe le cariche. Il ricambio in tali organi, in seguito a dimissioni volontarie o forzate, viene assicurato dal bacino dei militanti di partito, tramite un regolamento proposto dagli organi stessi all’assemblea degli scritti, che potrà approvarlo, chiederne modifiche o rigettarlo.

Gli iscritti si dividono in militanti di partito e candidati politici / eletti e sostenitori.

I militanti si occupano di organizzare il radicamento territoriale del partito, fondare sedi territoriali, organizzare le scuole di formazione per militanti e candidati politici, selezionare i candidati nei propri contesti dove vi sono sedi territoriali, organizzare i processi partecipativi, supportare le campagne elettorali e la comunicazione politica quotidiana. Sono i veri professionisti e gli artisti della politica. Ma non possono accedere alle cariche pubbliche elettive, non possono candidarsi. Possono essere dipendenti della Pubblica Amministrazione o di altre organizzazioni, per procurarsi il proprio reddito, ma non possono mai candidarsi ad alcuna carica elettiva della Pubblica Amministrazione.

I candidati politici sono gli iscritti che vogliono intraprendere la carriera politica per brevi o lunghi periodi della loro vita. Devono seguire un periodo di formazione minimo e vengono selezionati per le candidature politiche in un contesto territoriale dai militanti di partito della sede competente. Le loro campagne vengono supportate dai militanti della sede competente. Il loro rapporto è di collaborazione, i militanti tuttavia sorvegliano la comunicazione politica del candidato e, nel caso non siano rispettati i principi programmatici, possono aprire procedure di estromissione nei loro confronti.
I candidati, una volta eletti, devono fornire una percentuale dei propri compensi alla sede locale. Questa a sua volta deve cedere una percentuale delle proprie entrate alla sede centrale.

In particolari realtà territoriali, qualora le entrate lo permettano, i militanti possono percepire un compenso a progetto o fisso, un rimborso spese o altrimenti sono volontari che talvolta auto-finanziano le attività.

Ogni sede territoriale organizza autonomamente la propria attività e le proprie forme di finanziamento. Non ci sono preclusioni, devono semplicemente essere rispettate le leggi del contesto territoriale in cui si trova la sede.

Il consiglio direttivo centrale e il comitato scientifico sono gli organi che tutelano i principi del partito. Proposte di modifica ai principi possono pervenire al consiglio direttivo dal comitato scientifico con argomentazioni e studi che ne comprovano la necessità. E’ comunque facoltà del consiglio direttivo valutare tali proposte e sottoporle all’assemblea per l’approvazione.

Le procedure di estromissione possono essere aperte nei confronti dei candidati politici dal consiglio direttivo centrale, dai consigli direttivi territoriali, da un numero x di militanti.
I consigli direttivi prenderanno in carico le violazioni rilevate, raccoglieranno la documentazione che ne comprova la validità o invalidità, ed emetteranno un verdetto di estromissione o di ravvedimento o chiuderanno la procedura con un nulla di fatto. I candidati avranno facoltà di ricorrere al comitato scientifico qualora contestino il verdetto, ma devono almeno ottenere un numero minimo di sottoscrizioni da parte degli iscritti.

I militanti e i candidati non possono essere stati iscritti ad altri partiti da almeno x anni precedenti alla loro richiesta di iscrizione.

Per diventare militanti o candidati non è sufficiente iscriversi. E’ necessario seguire la scuola di formazione politica per militanti o candidati e completare i corsi con successo.

Sia i militanti che i candidati, una volta scelta la propria vocazione di militante o candidato, devono mantenerla per almeno 3-5? anni. Dopodiché possono cambiare vocazione e diventare militanti se candidati o viceversa dopo aver completato i rispettivi corsi. Ogni militante e candidato per mantenere la sua posizione dovrà inoltre seguire corsi di aggiornamento periodici.

Gli iscritti che non seguiranno i corsi di formazione sono considerati automaticamente sostenitori. Pagano regolarmente la quota di iscrizione e possono supportare le attività di militanti o candidati. Possono partecipare all’assemblea degli iscritti, prenotarsi per interventi, partecipare al dibattito nelle varie sedi e strumenti del partito, votare nelle assemblee territoriali. Non possono però diventare delegati dell’assemblea centrale, alla quale possono accedere solo militanti o candidati.

Una volta ampliato il consenso e i finanziamenti, si possono ampliare le strutture e le funzioni organizzative presenti nelle sedi centrali e territoriali.

In tutte le sedi, particolare attenzione sarà dedicato allo studio, organizzazione e valutazione della comunicazione politica che dovrà adottare forme e strumenti coerenti con i principi partecipazionisti (p.e. campagne elettorali condotte con il coinvolgimento della gente e degli attori territoriali, slogan, simboli, immagini, narrazioni, informazioni, relazioni e alleanze utili).

Il peso della leadership, del carisma e del fascino personale, in tale approccio, saranno naturalmente limitati. La partecipazione implica spazi per tutti o almeno per molti, non si ricorre a lunghi monologhi, a gigantografie personalistiche, a storie di vita personali. Il successo della partecipazione è il frutto di tutte le storie, della vita di tutti, non ci sono esemplari da imitare, ma collettività esemplari, coese e fiorenti, semmai.

Le sorti di un partito partecipazionista dipendono dalla forza delle sue idee, dalla sua organizzazione, dal suo radicamento territoriale, non certo dal carisma di un leader che è tanto precario e fallace quanto la caducità umana.

Ogni sede territoriale è diretta dai militanti per quel che riguarda la gestione amministrativa, la formazione e la selezione dei candidati per le campagne elettorali.

Una volta individuato il gruppo dei candidati, questi potranno organizzarsi al proprio interno, con il supporto dei militanti, proporre un proprio nome e simbolo di lista personalizzato e adeguato al contesto territoriale in cui operano. Il gruppo candidati con il consenso dei militanti, sentendo anche i sostenitori, potrà negoziare con altri partiti o liste un’alleanza finalizzata all’affermazione, almeno su alcune questioni, dei principi partecipazionisti. Ad esempio potranno concordare la nomina di un proprio candidato alla carica di assessore o ministro della partecipazione. Oppure l’avvio di processi partecipativi su una o più questioni ritenute prioritarie.
Inoltre potranno organizzare come gruppo di minoranza dei processi partecipativi su determinate questioni per esercitare pressioni sulle scelte della maggioranza.
Di volta in volta, da contesto in contesto, possono essere concordate alleanze valutando tuttavia che gli alleati non propongano nello stesso tempo principi opposti e in chiara contraddizione con i principi partecipazionisti.
Il direttivo dei militanti territoriali dovrà sempre approvare tali alleanze pena l’estromissione dell’intero gruppo candidati.

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